Noemi deriva dall'ebraico no'am che significa "gioia". Casualità nella scelta del nome o approfondita conoscenza etimologica? Noemi Letizia si legge quindi "gioia + letizia", una specie di gioia al quadrato, una supergioia. Sicuramente chi porta questo nome appare in molte foto radiosamente gioiosa, di una gioia contagiosa che ha colpito stampa, famiglia e presidente del Consiglio, da molti ritenuto parte integrante della stessa famiglia.
La stampa dovrebbe farle un monumento - anzi glielo sta già facendo, in grande stile, con una campagna mediatica che non vede l'eguale nemmeno sotto elezioni politiche - per aver disseminato questi sorrisi giganti in tutta Italia. E' diventata l'oggetto di cui tutti devono per forza parlare, ognuno per le sue ragioni: chi per screditare il premier, chi per difendere il premier, chi perché disgustato dal cabaret della politica - e del costume - italiano. Chi perché la trova carina, chi perché la trova bruttina; chi perché vuole giudicarla una svergognata in carriera, chi perché vuole restare deliziato da eventuali talenti che prima o poi le verranno attribuiti. Non è più una persona, ormai - e chi l'ha mai vista dal vivo? potrebbe anche non esistere - ma è uno specchio in cui tutti si guardano e ci vedono quello che vogliono.
Dispiace solo che l'utilità pubblica di questo specchio sia pari a zero. Dispiace che questa bionda chioma sia un inutile fuoco fatuo sventolato davanti alle facce degli italiani, senza alcun messaggio, senza alcun significato, mero oggetto di confusione, mero strumento autoreferenziale di una stampa perversa.
mercoledì 27 maggio 2009
venerdì 22 maggio 2009
Indovinello costitutivo
Ancora sulle curiosità delle varie costituzioni, con indovinello finale. Ipotizziamo ci sia un Paese (A) che al suo primo articolo costitutivo affermi: "il Paese (A) è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l'eguaglianza dinanzi alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di origine, di razza o di religione. Essa rispetta tutte le convinzioni. La legge promuove l'uguaglianza di accesso delle donne e degli uomini ai mandati elettorali e alle funzioni elettive, nonché alle responsabilità professionali e sociali." E' una costituzione che si regge, nell'ordine, su certi fondamenti: 1) l'indivisibilità, 2) la laicità - il gruppo cioè desidera costituirsi in assenza di qualsiasi orientamento religioso, 3) attribuzione di poteri decisionali al popolo, 4) spirito sociale.
Tutte cose perfettamente razionali nell'ambito di un ordinamento occidentale moderno. Mi colpiscono però tre cose: 1) il fatto che sia più importante professare la laicità del Paese (ergo "a-teismo" della vita pubblica, intendendo che qualsiasi rapporto tra cittadini viene regolato senza Dio), prima di affermarne la struttura democratica (anzi il laicismo viene ulteriormente rinforzato sostenendo che la repubblica rispetta "tutte le convinzioni", sottolineandone il carattere a-morale); 2) il fatto che un cardine costitutivo sia rappresentato da un'idea "sociale"; 3) la preoccupazione rispettosa di mettere le donne davanti agli uomini nell'affermazione della loro uguaglianza. Si tratta di una costituzione imbottita di laicismo, relativismo e perbenismo.
Leggiamo adesso la costituzione del Paese (B), che si apre così: "Consapevole della propria responsabilità davanti a Dio e agli uomini, animato dalla volontà di servire la pace nel mondo in qualità di membro di eguale diritti di un'Europa unita, il popolo del Paese (B) ha adottato questa costituzione." Il primo articolo della costituzione protegge l'uomo; ma non la vita dell'uomo, l'indisponibilità del corpo, la ricerca della felicità: tutela bensì la dignità della persona, che è intangibile e va rispettata e protetta. Seguono i diritti alla libertà e solo terza è l'uguaglianza davanti alla legge. Si tratta di un paese che tiene così tanto alla dignità dei cittadini da lasciar pensare che ce ne sia un particolare bisogno, maggiore che di libertà o uguaglianza.
In entrambi i casi, le costituzioni sono prodotti del tempo e della storia del paese. Indovinello, chi saranno mai i paesi (A) e (B)?
Tutte cose perfettamente razionali nell'ambito di un ordinamento occidentale moderno. Mi colpiscono però tre cose: 1) il fatto che sia più importante professare la laicità del Paese (ergo "a-teismo" della vita pubblica, intendendo che qualsiasi rapporto tra cittadini viene regolato senza Dio), prima di affermarne la struttura democratica (anzi il laicismo viene ulteriormente rinforzato sostenendo che la repubblica rispetta "tutte le convinzioni", sottolineandone il carattere a-morale); 2) il fatto che un cardine costitutivo sia rappresentato da un'idea "sociale"; 3) la preoccupazione rispettosa di mettere le donne davanti agli uomini nell'affermazione della loro uguaglianza. Si tratta di una costituzione imbottita di laicismo, relativismo e perbenismo.
Leggiamo adesso la costituzione del Paese (B), che si apre così: "Consapevole della propria responsabilità davanti a Dio e agli uomini, animato dalla volontà di servire la pace nel mondo in qualità di membro di eguale diritti di un'Europa unita, il popolo del Paese (B) ha adottato questa costituzione." Il primo articolo della costituzione protegge l'uomo; ma non la vita dell'uomo, l'indisponibilità del corpo, la ricerca della felicità: tutela bensì la dignità della persona, che è intangibile e va rispettata e protetta. Seguono i diritti alla libertà e solo terza è l'uguaglianza davanti alla legge. Si tratta di un paese che tiene così tanto alla dignità dei cittadini da lasciar pensare che ce ne sia un particolare bisogno, maggiore che di libertà o uguaglianza.
In entrambi i casi, le costituzioni sono prodotti del tempo e della storia del paese. Indovinello, chi saranno mai i paesi (A) e (B)?
mercoledì 20 maggio 2009
Ai confini dell'universo

Discorso di San Paolo ai cittadini di Atene sulla natura di Dio:
"Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio.
Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra.
Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: ‘‘Poiché di lui stirpe noi siamo’’.
Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti”.
Mi colpisce soprattutto il riferimento all'"ordine del tempo e ai confini dello spazio", che rappresentano le dimensioni in cui si muove l'uomo - temporali e geografiche, molto concrete. Nel mistero del tempo - un presente che diventa passato e si manifesta nel futuro - ma soprattutto nell'infinità dello spazio, che l'uomo osserva ed esplora in cerca di risposte. L'uomo che desidera conoscere e indagare le profondità della scienza per risolvere il mistero di Dio, e che spinge le sue navi nel cuore dell'universo in una ricerca "come a tentoni" di un Dio che invece è vicino, è dappertutto - tanto che in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, ne siamo parte e contenuto.
martedì 19 maggio 2009
Europa

Le elezioni europee si avvicinano ma rimangono qualcosa di lontano. Non mi sembra che gli italiani - come molti altri europei - sentano l'Europa vicina, o avvertano come particolarmente importante l'elezione di qualche rappresentante a Bruxelles. Questo è senz'altro legato al fatto che gli Stati nazionali continuano a mantenere grande forza e autonomia, in particolare nella politica estera e nella difesa. L'Unione Europa al momento è tale puramente sotto la sfera economica, nonostante fortissime differenze e anomalie tra i paesi membri. Assai più forti sono le differenze culturali e sociali, altro fattore che "allontana" l'Europa dai singoli europei. A chi interessa il presidente dell'Unione Europea? Non esiste alcun paragone con il clamore, l'interesse e l'importanza che accompagna l'elezione del presidente degli Stati Uniti, nonostante l'immensa portata economica, demografica e storica portata avanti dalla comunità degli Stati europei.
E' tuttavia interessante fare un breve confronto di certe peculiarità statali, specialmente in ambito demografico o storico/culturale (come i "motti" nazionali, che l'Italia prudentemente non ha). Il motto francese e' il celebre "liberté, egalité, fraternité", ricopiato praticamente al contrario dalla Germania, che professa "unità, giustizia e libertà". Il motto greco è "libertà o morte", mentre il più passivo motto svedese è "per la Svezia, nel tempo". Il Belgio ha adottato il celebre adagio "l'unione fa la forza", mentre più interessante il motto olandese, "io manterrò", e ancora di più quello lussemburghese, "vogliamo rimanere ciò che siamo".
Il motto lussemburghese sembra tuttavia un difficile proposito, e qui passiamo all'analisi demografica. Non stupisce che i paesi europei con la più forte componente di immigrazione abbiano il più alto tasso di fertilità: in testa la Francia (1,94 figli per famiglia), Regno Unito (1,78), Svezia (1,77), Olanda (1,71) e appunto Lussemburgo (1,70). Ad eccezione dell'Irlanda, stato più giovane dell'Europa (25% della popolazione sotto i 18 anni), gli altri principali paesi (Italia, Germania, Austria, Spagna, Portogallo, Grecia) hanno un tasso di fertilità appiattito a 1,3 figli per famiglia, ed una percentuale di minorenni tra 16% e 19%.
A parte i dati di reddito pro capite, il modo più immediato per valutare il progresso di un paese membro e' osservare quante famiglie hanno accesso a internet: 83% in Olanda, 79% in Svezia, 72% nel Regno Unito, 71% in Germania, 69% in Lussemburgo, 60% Austria, 49% in Francia, 45% in Spagna, 43% in Italia, 40% Portogallo, 25% Grecia. Tutti questi dati provengono dal sito web del parlamento europeo.
L'Europa rimane un insieme estremamente eterogeneo di popoli, culture, classi sociali, ancora prima che di lingue e tradizioni, e questa è per molti versi una ricchezza da salvaguardare. Sarebbe preoccupante un'idea di "europeizzazione" dei vari popoli pianificata a tavolino da alcuni rappresentanti a Bruxelles, che voglia definire un "modello" di individuo europeo da realizzarsi col tempo sotto pressioni e indirizzi legislativi.
sabato 16 maggio 2009
Germi di decadenza
L’Occidente è in declino, ma non in declino economico. Siamo nella crisi economica peggiore degli ultimi sessant’anni? Verissimo, ma non manca il cibo dagli scaffali dei supermercati, non chiudono le boutique di moda, ristoranti e discoteche sono pieni e se non abbiamo già prenotato un posto per le vacanze estive siamo in ritardo. Abbiamo un lungo elenco di bisogni da soddisfare e spuntiamo quasi sempre tutta la lista, l’unico dispiacere capita a volte se non riusciamo a spuntarla tutta. Magari ci tocca andare sull’Adriatico invece che in Sardegna, alla faccia della crisi. Chi parla di decadenza?
La decadenza è solo culturale, è solo civile. La decadenza non la vivono i veri poveri o i veri ricchi, ma solo i quasi poveri o i quasi ricchi. La decadenza è arrivare così in alto, così vicini alla vetta, e fermarsi prima del traguardo. È arrivare tanto in alto che si può solo cadere in basso, perché non si è arrivati alla stabilità della cima. È perdere la motivazione a crescere, a migliorare. È perdere di vista il futuro, il progetto, e abbandonarsi solamente a se stessi.
Il povero ha la spinta crudele della povertà, che lo porta a combattere la battaglia di ogni giorno, a ingegnarsi per sopravvivere, a crearsi una condizione migliore. Il povero ha molta voglia di vivere, ama la vita, e nel processo di crescere se stesso può trovare la gratificazione e la felicità dell’esistenza: un’esistenza difficile, aspra, che viene però assaporata nelle piccole vittorie quotidiane. In quell’esistenza c’è veramente un progresso, un sogno, una ragione di vita.
Quanto è triste invece chi ha una stabilità economica e se ne accontenta, rimpiangendo di non potersi concedere lussi al di là della propria portata? È un uomo finito, senza sogni, che cerca unicamente di mantenere – possibilmente col minimo sforzo – il proprio tenore di vita, invocando lo Stato come necessario difensore di diritti e privilegi.
La decadenza nasce quando smettiamo di fare. Smettiamo di conoscere noi stessi, di educarci, di avere consapevolezza del nostro mondo e della nostra storia. Smettiamo di fare certi lavori, e lasciamo ad altri il compito più importante – quello civile, quello di prendere decisioni per la collettività.
La decadenza è dappertutto, ma soprattutto si insinua nel cuore dell’uomo come una forma di tristezza, di malinconia, di abbandono. Non la leggiamo forse negli occhi della gente? È il cedimento, è il muto assenso a lasciar andare le cose in rovina, cercando di prolungare al massimo quest’ultimo secondo di piacere che ci rimane. È l’ultima goccia di vino nel bicchiere. Mancando una spinta forte ad andare avanti, manca anche quella battaglia quotidiana che è il processo in cui si manifesta una vera felicità nella vita, la felicità delle cose che crescono.
La decadenza è infelicità, insoddisfazione, e nasce quando non abbiamo più un sogno o crediamo di non avere la forza per realizzarlo. E questo manca all’Italia, manca all’Europa. Che senso ha essere italiani? Cosa vuol dire oggi essere europei? Erano sogni del passato, sogni di altre genti che si sono spese per realizzarli. Cosa ci rimane oggi da sognare? E ci stupiamo se nel nostro vuoto giungono milioni di stranieri poveri, vitali, pronti a colmarlo?
La decadenza è solo culturale, è solo civile. La decadenza non la vivono i veri poveri o i veri ricchi, ma solo i quasi poveri o i quasi ricchi. La decadenza è arrivare così in alto, così vicini alla vetta, e fermarsi prima del traguardo. È arrivare tanto in alto che si può solo cadere in basso, perché non si è arrivati alla stabilità della cima. È perdere la motivazione a crescere, a migliorare. È perdere di vista il futuro, il progetto, e abbandonarsi solamente a se stessi.
Il povero ha la spinta crudele della povertà, che lo porta a combattere la battaglia di ogni giorno, a ingegnarsi per sopravvivere, a crearsi una condizione migliore. Il povero ha molta voglia di vivere, ama la vita, e nel processo di crescere se stesso può trovare la gratificazione e la felicità dell’esistenza: un’esistenza difficile, aspra, che viene però assaporata nelle piccole vittorie quotidiane. In quell’esistenza c’è veramente un progresso, un sogno, una ragione di vita.
Quanto è triste invece chi ha una stabilità economica e se ne accontenta, rimpiangendo di non potersi concedere lussi al di là della propria portata? È un uomo finito, senza sogni, che cerca unicamente di mantenere – possibilmente col minimo sforzo – il proprio tenore di vita, invocando lo Stato come necessario difensore di diritti e privilegi.
La decadenza nasce quando smettiamo di fare. Smettiamo di conoscere noi stessi, di educarci, di avere consapevolezza del nostro mondo e della nostra storia. Smettiamo di fare certi lavori, e lasciamo ad altri il compito più importante – quello civile, quello di prendere decisioni per la collettività.
La decadenza è dappertutto, ma soprattutto si insinua nel cuore dell’uomo come una forma di tristezza, di malinconia, di abbandono. Non la leggiamo forse negli occhi della gente? È il cedimento, è il muto assenso a lasciar andare le cose in rovina, cercando di prolungare al massimo quest’ultimo secondo di piacere che ci rimane. È l’ultima goccia di vino nel bicchiere. Mancando una spinta forte ad andare avanti, manca anche quella battaglia quotidiana che è il processo in cui si manifesta una vera felicità nella vita, la felicità delle cose che crescono.
La decadenza è infelicità, insoddisfazione, e nasce quando non abbiamo più un sogno o crediamo di non avere la forza per realizzarlo. E questo manca all’Italia, manca all’Europa. Che senso ha essere italiani? Cosa vuol dire oggi essere europei? Erano sogni del passato, sogni di altre genti che si sono spese per realizzarli. Cosa ci rimane oggi da sognare? E ci stupiamo se nel nostro vuoto giungono milioni di stranieri poveri, vitali, pronti a colmarlo?
mercoledì 13 maggio 2009
Miracoli

Coloro che hanno fede, credono anche ai miracoli. Se Dio c'è, se si è manifestato con prodigi nella storia, i miracoli esistono e si possono ripetere.
Si possono anche compiere, con la grazia divina, e ne è testimone l'operato dei santi. Quante volte nella Bibbia si parla di poteri di guarigione, di profezia, di conoscenza delle lingue, levitazione, bilocazione, intervento angelico. Quanti miracoli nelle vite dei santi, anche moderni.
In molti oggi ritengono che una "fede matura", adulta, intelligente, debba prescindere dalla visione dei miracoli - come se i miracoli fossero segni avvenuti in passato, intrinsecamente legati ai tempi e innecessari alla fede moderna. Un'ottica assai progressista della fede. Sotto silenzio passano due scuole di pensiero: la prima, tipica di chi desidera l'appagamento della propria superiorità intellettuale, che confina i miracoli nella sfera della superstizione popolare; la seconda, quella più eretica e laica, che guarda ai miracoli come ad episodi/storielle meramente simbolici, che vogliono in realtà parlare di qualcosa di serio.
E' più difficile credere ai miracoli nel mondo moderno, in cui si cerca di analizzare ogni fenomeno al microscopio. Ed è bello che sia così, affinché sia possibile accertare un'autenticità del miracolo. Per lo scettico, per il razionale, è particolarmente difficile credervi: storicamente i miracoli non avvengono in pubblico, ma rimangono confinati nel privato e nel segreto. Il desiderio umano di "chiedere un segno per poter credere" è un tentare Dio, a cui Dio risponde "non avrete alcun segno, se non il segno di Giona". Questa è la pietra di scandalo, che confonde i sapienti e separa i fedeli dagli increduli. Per il sapiente, infatti, "non avrete alcun segno" è una conferma che i miracoli non esistono e si possono spacciare solo agli ignoranti. Il sapiente si compiace così della sua intelligenza. Non in questo modo funziona la fede.
Anche nei tempi moderni si registrano tuttavia casi straordinari di fenomeni miracolosi di massa. Oggi si celebra il ricordo delle apparizioni di Fatima, in cui il prodigio del 13 ottobre 1917 fu visto da 70.000 persone. Riporto un passaggio dalla rubrica Santi e Beati di oggi.
"Avvenne lo strepitoso prodigio del sole; riportiamo qui la descrizione fatta dal giornalista, libero pensatore Avelino d’Almeida, direttore del giornale di Lisbona “O Seculo”, presente al fenomeno e che pubblicò nell’edizione del mattino di lunedì 15 ottobre 1917.
'Abbiamo assistito ad uno spettacolo unico ed incredibile, per chi non era presente. Il sole sembrava un disco d’argento opaco, non riscaldava, non offuscava. Si poteva dire che fosse un’eclissi. Si sentì allora un grido: ‘Miracolo, Miracolo!’. Di fronte agli occhi sbalorditi della gente, il cui atteggiamento ci riportava ai tempi Biblici, e che, pallidi di paura e con le teste scoperte, guardavano il cielo azzurro, il sole che tremava, che faceva movimenti rapidi, mai visti prima, estranei alle leggi cosmiche, il sole ‘cominciò a ballare’ come dicono i contadini. C’era solo una cosa da fare, cioè che gli scienziati spiegassero con tutta la loro sapienza il fantastico ballo del sole che oggi, a Fatima, ha levato un ‘Osanna’ dal cuore dei fedeli e che, secondo testimoni affidabili, ha impressionato perfino i liberi pensatori ed altri senza convinzioni religiose, che sono venuti a questo luogo d’ora in poi celebre'. Quando tutto ciò finì, gli abiti di tutti prima bagnati dall’insistente pioggia, erano perfettamente asciutti; alla Cova da Iria la Madonna era veramente apparsa e si era manifestata con un miracolo visto dai presenti stupiti e terrorizzati."
lunedì 11 maggio 2009
La democrazia come un pendolo
La democrazia è un sistema di governo ibrido, che si manifesta in una serie di sfumature: è come un pendolo che oscilla tra assolutismo ed anarchia. A seconda della forza o debolezza dello Stato, possiamo ipotizzare che una democrazia sia più o meno vicina ad uno di questi versanti.
Dove oscilla il pendolo del sistema Italia si può facilmente capire affrontando la tematica clandestini.
Nasce subito una grossa polemica quando si ipotizza che a certe categorie (ad esempio medici o insegnanti/presidi) sia affidato l'obbligo di denunciare eventuali clandestini. Ed è effettivamente un brutto obbligo, che tocca la coscienza degli individui: come non desiderare che cure mediche ed insegnamento siano rivolte a tutti? Non sono forse diritti costituzionali? Sono diritti che vorremmo vedere applicati particolarmente ai più deboli, ai più poveri, come coloro tra gli immigrati che non hanno nessun riconoscimento, che vivono privazioni indicibili, che spesso fuggono da luoghi di desolazione. Non sembra necessario rivoltarsi contro uno Stato che pensa in questo modo, che ci chiede di ingoiare un boccone amaro, con il pretesto di difendere alcuni supposti diritti dei cittadini italiani che già hanno la pancia piena?
Moralmente è inaccettabile. Detto questo, ci si trova in una situazione inaccettabile proprio perché lo Stato è debole a priori, è debole da tempo, e a dettare legge sono i moti di piazza più che l'attività di governo.
Infatti gli stessi servizi sono liberamente offerti agli immigrati regolari. Anzi, dovremmo essere particolarmente lieti di lavoratori stranieri che danno un contributo economico alla società e desiderano istruire se stessi o i loro figli, individui che vivono in condizioni di povertà quasi intollerabili ma che in certa misura desiderano far parte di un tessuto sociale più integrato.
La sottile differenza tra il regolare e il clandestino, tuttavia, è un crimine: e come tale il vero fallimento dello Stato è quello di non riuscire ad arginare il crimine prima che si manifesti.
Uno Stato che disciplinasse l'immigrazione prima che questa si manifesti clandestinamente, che riconoscesse il costo sociale dell'immigrazione di massa - prima di guardare ad un beneficio economico, che sembra sempre meno alto - uno Stato che non si facesse condizionare dagli slogan di piazza: questo sarebbe uno Stato forte. Uno Stato è forte non quando rimanda indietro le navi di disperati che ci arrivano dal Nord Africa (chissà quanto avremo dovuto pagare la Libia per questo scherzetto); uno Stato è forte quando le navi non partono nemmeno, perché esuli e trafficanti già sanno che in Italia non ci si arriva illegalmente, o se ci arrivi vieni beccato subito.
Qualche sforzo nella direzione giusta si sta certamente facendo, ma il passo più importante rimane quello di ristituire forza e dignità allo Stato. Una cosa che soprattutto il ministro Brunetta sembra aver compreso bene.
Dove oscilla il pendolo del sistema Italia si può facilmente capire affrontando la tematica clandestini.
Nasce subito una grossa polemica quando si ipotizza che a certe categorie (ad esempio medici o insegnanti/presidi) sia affidato l'obbligo di denunciare eventuali clandestini. Ed è effettivamente un brutto obbligo, che tocca la coscienza degli individui: come non desiderare che cure mediche ed insegnamento siano rivolte a tutti? Non sono forse diritti costituzionali? Sono diritti che vorremmo vedere applicati particolarmente ai più deboli, ai più poveri, come coloro tra gli immigrati che non hanno nessun riconoscimento, che vivono privazioni indicibili, che spesso fuggono da luoghi di desolazione. Non sembra necessario rivoltarsi contro uno Stato che pensa in questo modo, che ci chiede di ingoiare un boccone amaro, con il pretesto di difendere alcuni supposti diritti dei cittadini italiani che già hanno la pancia piena?
Moralmente è inaccettabile. Detto questo, ci si trova in una situazione inaccettabile proprio perché lo Stato è debole a priori, è debole da tempo, e a dettare legge sono i moti di piazza più che l'attività di governo.
Infatti gli stessi servizi sono liberamente offerti agli immigrati regolari. Anzi, dovremmo essere particolarmente lieti di lavoratori stranieri che danno un contributo economico alla società e desiderano istruire se stessi o i loro figli, individui che vivono in condizioni di povertà quasi intollerabili ma che in certa misura desiderano far parte di un tessuto sociale più integrato.
La sottile differenza tra il regolare e il clandestino, tuttavia, è un crimine: e come tale il vero fallimento dello Stato è quello di non riuscire ad arginare il crimine prima che si manifesti.
Uno Stato che disciplinasse l'immigrazione prima che questa si manifesti clandestinamente, che riconoscesse il costo sociale dell'immigrazione di massa - prima di guardare ad un beneficio economico, che sembra sempre meno alto - uno Stato che non si facesse condizionare dagli slogan di piazza: questo sarebbe uno Stato forte. Uno Stato è forte non quando rimanda indietro le navi di disperati che ci arrivano dal Nord Africa (chissà quanto avremo dovuto pagare la Libia per questo scherzetto); uno Stato è forte quando le navi non partono nemmeno, perché esuli e trafficanti già sanno che in Italia non ci si arriva illegalmente, o se ci arrivi vieni beccato subito.
Qualche sforzo nella direzione giusta si sta certamente facendo, ma il passo più importante rimane quello di ristituire forza e dignità allo Stato. Una cosa che soprattutto il ministro Brunetta sembra aver compreso bene.
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