sabato 21 marzo 2009

A tutta Vita

Cos’è la vita degli uomini? Quando nasciamo, quando cresciamo, sviluppiamo un’idea completa di vita, uno “standard” molto occidentale in cui incaselliamo le fasi della vita e ce ne serviamo per contestualizzare la nostra esistenza.
Più banalmente, si nasce, si cresce, si studia, si lavora, si ha una famiglia, dei figli, si invecchia, si muore. Questo è “il giusto”, ciò che a ognuno spetta. E, in tutto questo, è essenziale riuscire a “vivere bene”, cioè godere le opportunità e le bellezze della Terra, assaporarne il più possibile.
Succede quindi che, quando si spezza questo ciclo perfetto, la vita diventa un peso insopportabile, indegna di essere vissuta. Se una persona ha un incidente, una malattia, una paralisi, che impediscono lo sviluppo perfetto della buona vita, quella persona non ha praticamente alcuna ragione di esistere, ed è semplicemente condannata da un dio malvagio ad un inferno sulla Terra. O godi, o meglio che non fossi mai nato. Se poi per disgrazia finisci in uno stato vegetativo, di quelli che nessuno è mai tornato per raccontare cosa provi, sale sempre più alto il grido silenzioso che ti vorrebbe aiutare a morire, a scioglierti nella pace del nulla.
Come siamo arrivati a questo punto?
La realtà è molto più semplice della macchinazione perfetta dei desideri umani. Non siamo sulla Terra per godere tutto quello che possiamo. Se anche possiamo godere di qualcosa, è una fortuna che non ci meritiamo, che non possiamo dare per scontato, ma che possiamo solo ricevere ed esserne riconoscenti.
Ci sono persone che muoiono a cinquant’anni. Altre a quaranta, altre a trenta. Altre a quindici o dieci anni. Altre muoiono prima ancora di nascere. E non accade perché sono più sfortunate, meritevoli, o immeritevoli delle altre. Accade perché è parte della Vita, di un disegno che possiamo comprendere solo in minima parte. Accade perché tutto il sistema ne venga influenzato, e si regoli di conseguenza, in un’infinità di cause ed effetti che non comprendiamo, ma che orientano la storia umana in una direzione. Accade perché, chi resta in questo mondo, abbia la possibilità di imparare e di riflettere sul senso della vita. Una vita che in qualunque condizione, in qualunque stato - non solo quello del benessere sterilizzato tutto occidentale – ha sempre il dovere di essere vissuta.

venerdì 20 marzo 2009

No Choice

La libertà di coscienza è cosa giusta e salvaguardata per i cittadini di ogni paese democratico, ma dovrebbe applicarsi anche ai politici? Dovrebbero, i politici, che sono appunto eletti in base ad un programma e a delle idee precise, di fatto astenersi su certe questioni "morali" invocando la libertà di coscienza? Sono domande che, a livello più generale, portano a farsi un'altra domanda: è corretto che lo Stato sia interamente privato del potere di fare scelte in campo etico/morale, alla luce della libertà di coscienza che "bisognerebbe" garantire ai cittadini?
Le decisioni politiche con ripercussione in campo morale sono le più difficili, perché generalmente di tipo esclusivo: o si fa in un modo, o si fa in quello opposto, scontentando automaticamente la fetta (anche grande) degli elettori che la pensa diversamente. Le democrazie, quindi - anche se in realtà si dovrebbe parlare solo dei politici - tendono a non prendere posizione su questi temi, ammettendo entrambe le possibilità.
Tutti i temi più scottanti rientrano in questo calderone: aborto, eutanasia, divorzio, matrimoni e adozioni gay, liberalizzazione di droghe leggere, eccetera. In Italia alcuni di questi temi non sono ancora liberalizzati, ma è palese che i fronti progressisti spingano vigorosamente in quella direzione. Molti pensatori liberal sostengono che non abortirebbero mai, non si drogherebbero mai, non si separerebbero mai, perché lo ritengono sbagliato; ma che tuttavia non è giusto imporre ad altri le proprie convinzioni. Si tratta infatti di "questioni di coscienza". "Coscienza" in questo caso ha un significato estremamente profondo e negativo: ciascuno utilizza la propria coscienza perché non è possibile stabilire la "Verità" ultima della situazione in essere.
Il caso più lampante è quello dell'aborto. L'unica ragione per cui un aborto può essere consentito da uno Stato, è perché non si sa se chiamare "vita", "bambino", o meno, quell'ammasso informe di cellule che pian piano cresce nel ventre di una donna. Se una Verità stabilisse che quello è effettivamente un bambino, lo Stato - che ancora sembra volersi impegnare a difendere la vita umana - non potrebbe in alcun caso ammettere il diritto di aborto.
Curiosamente nella valutazione di questo tipo di scelte viene sottratta la variabile "tempo". Ci si pone cioè la questione nell'oggi, nel momento, non considerando gli effetti futuri della scelta presente. Cosa succede infatti se non abortisci entro 9 mesi, forse che nasce un bambino? Cosa succede a un drogato se lo lasci libero di drogarsi a go-go per anni? Come sarà psicologicamente - e quindi come si comporterà nel corso della sua vita - il bambino allevato da genitori omosessuali? Forse alla Verità si potrebbe anche giungere più facilmente considerando questa variabile.
L'argomentazione molto amata dai liberal-radicali (liberalizzare l'aborto, perché altrimenti serpeggia quello clandestino; o liberalizzare le droghe per sconfiggerne il traffico e "monitorare" chi ne fa uso) è fallita alla prova dei fatti. Dove questi tipi di libertà sono stati concessi, i cittadini non ne hanno saputo fare buono uso. E con "buono" intendo che non hanno saputo ascoltare quella voce bassa della coscienza che ti dice che abortire non è 100% giusto, drogarti non è 100% giusto, avere famiglie gay che adottano bambini non è 100% giusto. I cittadini creano e influenzano le leggi, ma ne vengono a loro volta influenzati. Nelle democrazie in cui questi diritti sono diffusi e consolidati, la scelta "cattiva" risulta non più la depenalizzazione di un'eccezione, di un fallimento del sistema, bensì una prassi normale con pari valore sul piano etico e morale del suo esatto contrario. Con impatti devastanti sulla cultura di un popolo.
Per questo non è accettabile che i politici e lo Stato si rifiutino di dare un chiaro indirizzo morale alla loro attività, ma è anzi fondamentale che certe libertà siano regolate o limitate in modo più severo, alla luce di principi fondativi forti e condivisi dalla comunità. Altrimenti che senso ha la democrazia e l'elezione dei rappresentanti?

giovedì 19 marzo 2009

Riforma delle carceri

Nonostante stia tornando di gran moda (e non senza ragione) l'intervento dello Stato nell'economia, è innegabile che una maggiore efficienza dei processi sia raggiungibile con gli schemi e l'approccio del sistema privato. Uno Stato che gestisca di sua mano un'attività di impresa, o di servizi, è il peggior giudice della sua performance, oltre a vivere intrinsecamente il condizionamento psicologico dell'"avere risorse potenzialmente infinite a disposizione" e a non sfruttarle efficientemente. Non è fortunatamente sempre il caso, ma la proprietà pubblica può facilmente condurre ad una gestione rilassata, in cui gli amministratori sono indotti ad assumersi poche responsabilità e rischi molto elevati. I privati, al contrario, sono vincolati da risorse limitate e hanno come compito principale quello di soddisfare i creditori - pena il fallimento. In questo senso, l'assunzione di debito finanziario ha per le imprese una funzione regolativa, che incentiva la buona amministrazione.
Un settore che in Italia è rimasto di appannaggio esclusivo dello Stato è quello delle carceri, con motivazioni spesso valide. Alla nostra mentalità può dar fastidio pensare che la gestione della vita di esseri umani venga affidata ad enti "non impersonali" come lo Stato, ma a dei privati.
Nei fatti però si può guardare alla questione anche dal punto di vista della qualità della vita dei carcerati - che potrebbero loro stessi preferire una gestione privata - e all'economicità della gestione, a parità di trattamento. Non riesce difficile pensare che il "business" delle carceri sarebbe un settore estremamente regolato, come quello delle Utility, in cui la competizione dei privati a far meglio è incentivata dal rinnovo delle concessioni. Una gestione più facilmente monitorabile da parte dello Stato, il quale non permetterebbe violazioni degli standard di trattamento per i detenuti. Un sistema più trasparente.
E' motivo di scandalo inoltre che non sia offerta ai carcerati in modo sistematico la possibilità - e non l'obbligo, ma quantomeno la possibilità - di svolgere un lavoro. Certamente si deve trattare di mansioni conciliabili con gli obblighi di sorveglianza, ma lo svolgimento di un lavoro (specie un lavoro "socialmente utile") è una forma di pagamento del debito maturato dal detenuto verso la società, che restituisce dignità all'individuo e ne facilita il reinserimento sociale.

mercoledì 18 marzo 2009

Tradizione

Tradizione sono la radice e il seme, è il fiume delle generazioni.
Tradizione è comprendere da dove veniamo e volontariamente aderire alla corrente.
Tradizione è la conoscenza del traguardo, è mantenere l'occhio sulla meta.
La Tradizione è virtuosa, è paziente la Tradizione.
Come le montagne, guarda verso l'alto ed è silenziosa.
La puoi colpire, ma non la puoi uccidere. La puoi rinnegare, ma solo rinnegando te stesso.
Non si vede la Tradizione, si può solo vivere. Non è un sogno, ma è come vivere un sogno.
La Tradizione è semplice, la Tradizione è bella.
La Tradizione non è del Mondo, anzi il Mondo la odia.
Il Mondo ti chiede di essere, la Tradizione ti chiede di divenire.
Il Mondo ti vuole ribelle, in cerca della tua verità, ansioso di tutto provare.
Cerca solo la Verità e obbediscile, questo chiede la Tradizione. Accontentati di quello che è giusto, perché non tutto giova.
Tra il bianco e il nero, il Mondo ama il grigio.
Se navighiamo nel grigio, la Tradizione ci chiede di mettere ordine.
La Tradizione è vita imperitura, completa, senza limiti. Il Mondo è vita sfrenata, in attesa che giunga il nulla.
La Tradizione è pace nell'anima, la pace del Mondo che cos'è?
La Tradizione è il Tutto, è l'Unico, è l'Eterno. A noi piace molto la Tradizione.

martedì 17 marzo 2009

Futurando

Prevedere il futuro è cosa impossibile agli uomini, lo dimostra l'andamento dei listini di borsa. Il futuro però non esiste: è qualcosa che prende esistenza soltanto nel presente. Si può pensare al futuro come a un sogno, ad una possibilità - a qualcosa a cui avvicinarsi, che ha più o meno probabilità di "divenire", di essere, al momento in cui si traduce nel presente.
Il futuro cioè non "è" mai; si può solo pensare, sognare. E nel limite delle proprie possibilità, cioè della volontà e delle energie che possiamo spendere, si può anche costruire.
Ancora meglio, il futuro si può desiderare - cosa tra l'altro più facile che non mettersi a costruirlo. E liberandoci per un attimo dal fardello di costruire il futuro, soffermiamoci a pensare a che futuro desideriamo per il nostro paese.
Tra le infinite possibilità e alternative, dove crediamo che sarà l'Italia a 20, 30 anni da oggi? Sarà economicamente solida, o sarà già diventata insolvente sul suo debito? Sarà culturalmente e socialmente omogenea, o ci saranno ancora più divisioni? In che lingua parleranno i nostri nipoti? In che cosa crederanno? Potranno fare le stesse esperienze che facciamo oggi, o di migliori?
Alcuni scenari sono forse prevedibili, e certe domande di facile risposta. Ma l'importante non è azzeccare la risposta. L'importante è chiedersi quale vogliamo che sia, quella risposta. E cercare di fare il possibile, nel limite delle nostre possibilità, perché il futuro si avvicini al nostro desiderio.

lunedì 16 marzo 2009

L'antipolitica

Ci si stupisce che a governare le nazioni siano per lo più uomini potenti, economicamente influenti, e lo si considera come qualcosa in parte sbagliato, sgradevole, magari non veramente democratico. In Italia ad esempio molti possono discutere che se Berlusconi è al potere è in gran parte grazie allo strumento delle televisioni - capace di indirizzare fortemente le coscienze - e a tutti i mezzi finanziari che gli consentono di fare propaganda spinta.
Non sfiora il dubbio che le persone potenti siano anche talvolta le persone con più esperienza, più adatte ad esercitare il potere proprio perché sono già abituate a gestirlo.
Non è giusto agli occhi della ragione umana che alcune persone, per nascita, siano più ricche e "fortunate" delle altre. Ma così è, così accade: e quella ricchezza, quel nucleo famigliare, garantirà loro la possibilità di vedere cose e vivere esperienze uniche. Potranno crearsi un bagaglio di conoscenze, relazioni, esperienze, che realmente possono andare a beneficio della collettività. E' pure vero che, osservando molti politici italiani, la prima reazione alle idee appena espresse è di farsi una sonora risata, non riuscendo facilmente a credere che possano cavare alcun tipo di valore.
Come pure è vero che al mondo di oggi è talmente diffusa una mentalità di sfiducia e di egoismo, per cui non ci si aspetta che un potente possa agire nell'interesse degli altri o dei più deboli. Risulta naturale, nei nostri flussi di pensiero, che ognuno ormai guardi solo e puramente al proprio interesse, cercando un mero tornaconto personale e materiale. Siccome siamo i primi a ragionare in questo modo, ci aspettiamo così facciano anche i nostri governanti. Ma allora in che modo possiamo pretendere di giudicarli? Saremmo forse meglio di loro?
No, staremmo puramente invidiandone la posizione: anche noi vorremmo prenderci quei benefici di ricchezza e potere che giudichiamo facili e illeciti. Se tutto questo è vero, posso solo sostenere che ci meritiamo i politici che abbiamo eletto.
Tanto per capire, crediamo forse che sia bello e divertente essere potenti? Che aumenti la nostra felicità? O non preferiremmo forse essere quello che già siamo, e cercare di guadagnarci quello che vogliamo essere?

domenica 15 marzo 2009

A freddo sulla San Pio X

Per chi non è cattolico, togliere una scomunica probabilmente non ha un grande valore. Lo si può associare ad un indulto, una grazia, concessa da un capo di stato a dei cittadini un po’ disobbedienti. Per un credente, la scomunica è la differenza fra il tutto e il niente, tra l’essere partecipe della salvezza eterna e il non averne parte. Difficilmente comprensibile per chi non crede.
E come se tu fossi figlio del più grande sovrano sulla Terra, il più potente del mondo, anzi, mille volte più potente, e fossi destinato ad aver parte per sempre a questo regno. Ti trovi invece ad esserne chiuso fuori, non riconosciuto, impossibilitato ad entrare, nella miseria, per sempre. Come ti sentiresti se qualcuno dal di dentro ti riaprisse la porta? Non sarebbe la cosa più grande e più bella che tu potessi desiderare? Tutti i pesi, le preoccupazioni, le incertezze, ti cadrebbero di dosso, toglieresti gli stracci che vestivi per tornare ad essere un principe. Questo è essere in comunione con la Chiesa.
Alcuni lefebvriani hanno manifestato posizioni personali gravi e condannabili, e la Chiesa ha fatto bene a condannarle, e lo ha fatto senza esitazione. Ma si tratta di posizioni personali, che non hanno nemmeno carattere teologico. Posizioni note al pubblico da lungo tempo, di cui nessuno si era mai interessato finché il papa – che non ha in alcun modo normalizzato la Fraternità San Pio X – ha semplicemente tolto una scomunica, restituendo vita e linfa ad una comunità numerosa che per la Chiesa era morta.
Ma a prescindere dal clamore su Williamson (che fortunatamente è stato solo un caso mediatico magistralmente orchestrato per oscurare il reale avvenimento) quello che colpisce è l’ostilità che è scaturita dall’interno della Chiesa. Un’ostilità diretta in modo violento verso i lefebvriani, nonché verso il papa per la sua decisione di distendere i rapporti. Laddove proprio i cattolici avrebbero dovuto essere lieti di riaccogliere nella loro comunità dei fratelli dispersi, hanno magistralmente fatto rivivere la parabola del figliuol prodigo interpretando il ruolo del fratello maggiore.
Ma c’è di più, e di più profondo: c’è la paura verso la Tradizione. Varrà la pena parlarne con calma un’altra volta.

A proposito delle ronde cittadine

Famosi opinionisti s’indegnano, e tra le righe suggeriscono che anche i lettori dovrebbero indignarsi, per la nuova e scandalosa moda delle ronde cittadine. Questi luminari del pensiero sembrano pensare che molti cittadini, di tutte le età e differenti schieramenti politici, non vedano l’ora – e si divertano - a trascorrere le ore più lunghe della notte a passeggio per vicoli buî, col rischio d’imbattersi in delinquenti veri, e magari dovendo anche svegliarsi presto per lavorare il giorno seguente. Quasi che le ronde fossero soltanto un modo per sfogare bestiali impulsi xenofobi, o altri spregevoli istinti che tipicamente si annidano nell’elettorato più ignorante. Va da sé che chi non sente il bisogno delle ronde vive probabilmente in luoghi più ameni di chi invece le apprezza e le sostiene. Ma questi tromboni dei diritti farebbero meglio a considerare come le ronde siano uno squisito esercizio di democrazia, anzi, di democrazia diretta, che loro tanto pretendono di amare.

Le ronde colmano un vuoto lasciato dall’apparato statale, che non è in grado in quella circostanza di difendere lo Stato – cioè i cittadini. Ed è ammirevole che in Italia, paese dove l’attività civica e l’interesse ad intraprendere iniziative comunitarie è notoriamente scarso, i cittadini decidano di organizzarsi ed ovviare in modo pacifico alle carenze di un apparato pubblico.

Detto questo, rimane certamente auspicabile un dialogo e un coordinamento tra i gruppi di ronda e la polizia locale. Se non fossimo un paese che ha naturalmente paura – e la storia ce ne può dare giustizia – dei movimenti di piazza, lo strumento delle ronde potrebbe essere facilmente sfruttato e inglobato nei sistemi di pubblica sicurezza. Con bassi costi, e risultati potenzialmente ottimi.

Già esistono sia in Italia che in altri paesi gruppi di volontari, vigilantes, city’s angel, coordinati con le forze di polizia. Londra è tappezzata di manifesti con la scritta “Tonight a DJ saved my life”, che invitano i normali cittadini ad entrare tra i volontari che aiutano la polizia di notte. E non crea alcuno scandalo. In Italia basterebbe che un solo agente o un pubblico ufficiale partecipasse alle ronde per dar loro normalità. Ma la mentalità burocratica e farraginosa che molti intellettuali continuano a mantenere sui diritti e i doveri dei cittadini – intellettuali che amano definirsi progressisti – preclude invece ogni progresso e irrigidisce ogni forma di risposta ai problemi concreti della gente.