sabato 16 maggio 2009

Germi di decadenza

L’Occidente è in declino, ma non in declino economico. Siamo nella crisi economica peggiore degli ultimi sessant’anni? Verissimo, ma non manca il cibo dagli scaffali dei supermercati, non chiudono le boutique di moda, ristoranti e discoteche sono pieni e se non abbiamo già prenotato un posto per le vacanze estive siamo in ritardo. Abbiamo un lungo elenco di bisogni da soddisfare e spuntiamo quasi sempre tutta la lista, l’unico dispiacere capita a volte se non riusciamo a spuntarla tutta. Magari ci tocca andare sull’Adriatico invece che in Sardegna, alla faccia della crisi. Chi parla di decadenza?
La decadenza è solo culturale, è solo civile. La decadenza non la vivono i veri poveri o i veri ricchi, ma solo i quasi poveri o i quasi ricchi. La decadenza è arrivare così in alto, così vicini alla vetta, e fermarsi prima del traguardo. È arrivare tanto in alto che si può solo cadere in basso, perché non si è arrivati alla stabilità della cima. È perdere la motivazione a crescere, a migliorare. È perdere di vista il futuro, il progetto, e abbandonarsi solamente a se stessi.
Il povero ha la spinta crudele della povertà, che lo porta a combattere la battaglia di ogni giorno, a ingegnarsi per sopravvivere, a crearsi una condizione migliore. Il povero ha molta voglia di vivere, ama la vita, e nel processo di crescere se stesso può trovare la gratificazione e la felicità dell’esistenza: un’esistenza difficile, aspra, che viene però assaporata nelle piccole vittorie quotidiane. In quell’esistenza c’è veramente un progresso, un sogno, una ragione di vita.
Quanto è triste invece chi ha una stabilità economica e se ne accontenta, rimpiangendo di non potersi concedere lussi al di là della propria portata? È un uomo finito, senza sogni, che cerca unicamente di mantenere – possibilmente col minimo sforzo – il proprio tenore di vita, invocando lo Stato come necessario difensore di diritti e privilegi.
La decadenza nasce quando smettiamo di fare. Smettiamo di conoscere noi stessi, di educarci, di avere consapevolezza del nostro mondo e della nostra storia. Smettiamo di fare certi lavori, e lasciamo ad altri il compito più importante – quello civile, quello di prendere decisioni per la collettività.
La decadenza è dappertutto, ma soprattutto si insinua nel cuore dell’uomo come una forma di tristezza, di malinconia, di abbandono. Non la leggiamo forse negli occhi della gente? È il cedimento, è il muto assenso a lasciar andare le cose in rovina, cercando di prolungare al massimo quest’ultimo secondo di piacere che ci rimane. È l’ultima goccia di vino nel bicchiere. Mancando una spinta forte ad andare avanti, manca anche quella battaglia quotidiana che è il processo in cui si manifesta una vera felicità nella vita, la felicità delle cose che crescono.
La decadenza è infelicità, insoddisfazione, e nasce quando non abbiamo più un sogno o crediamo di non avere la forza per realizzarlo. E questo manca all’Italia, manca all’Europa. Che senso ha essere italiani? Cosa vuol dire oggi essere europei? Erano sogni del passato, sogni di altre genti che si sono spese per realizzarli. Cosa ci rimane oggi da sognare? E ci stupiamo se nel nostro vuoto giungono milioni di stranieri poveri, vitali, pronti a colmarlo?

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