giovedì 19 marzo 2009

Riforma delle carceri

Nonostante stia tornando di gran moda (e non senza ragione) l'intervento dello Stato nell'economia, è innegabile che una maggiore efficienza dei processi sia raggiungibile con gli schemi e l'approccio del sistema privato. Uno Stato che gestisca di sua mano un'attività di impresa, o di servizi, è il peggior giudice della sua performance, oltre a vivere intrinsecamente il condizionamento psicologico dell'"avere risorse potenzialmente infinite a disposizione" e a non sfruttarle efficientemente. Non è fortunatamente sempre il caso, ma la proprietà pubblica può facilmente condurre ad una gestione rilassata, in cui gli amministratori sono indotti ad assumersi poche responsabilità e rischi molto elevati. I privati, al contrario, sono vincolati da risorse limitate e hanno come compito principale quello di soddisfare i creditori - pena il fallimento. In questo senso, l'assunzione di debito finanziario ha per le imprese una funzione regolativa, che incentiva la buona amministrazione.
Un settore che in Italia è rimasto di appannaggio esclusivo dello Stato è quello delle carceri, con motivazioni spesso valide. Alla nostra mentalità può dar fastidio pensare che la gestione della vita di esseri umani venga affidata ad enti "non impersonali" come lo Stato, ma a dei privati.
Nei fatti però si può guardare alla questione anche dal punto di vista della qualità della vita dei carcerati - che potrebbero loro stessi preferire una gestione privata - e all'economicità della gestione, a parità di trattamento. Non riesce difficile pensare che il "business" delle carceri sarebbe un settore estremamente regolato, come quello delle Utility, in cui la competizione dei privati a far meglio è incentivata dal rinnovo delle concessioni. Una gestione più facilmente monitorabile da parte dello Stato, il quale non permetterebbe violazioni degli standard di trattamento per i detenuti. Un sistema più trasparente.
E' motivo di scandalo inoltre che non sia offerta ai carcerati in modo sistematico la possibilità - e non l'obbligo, ma quantomeno la possibilità - di svolgere un lavoro. Certamente si deve trattare di mansioni conciliabili con gli obblighi di sorveglianza, ma lo svolgimento di un lavoro (specie un lavoro "socialmente utile") è una forma di pagamento del debito maturato dal detenuto verso la società, che restituisce dignità all'individuo e ne facilita il reinserimento sociale.

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