La libertà di coscienza è cosa giusta e salvaguardata per i cittadini di ogni paese democratico, ma dovrebbe applicarsi anche ai politici? Dovrebbero, i politici, che sono appunto eletti in base ad un programma e a delle idee precise, di fatto astenersi su certe questioni "morali" invocando la libertà di coscienza? Sono domande che, a livello più generale, portano a farsi un'altra domanda: è corretto che lo Stato sia interamente privato del potere di fare scelte in campo etico/morale, alla luce della libertà di coscienza che "bisognerebbe" garantire ai cittadini?
Le decisioni politiche con ripercussione in campo morale sono le più difficili, perché generalmente di tipo esclusivo: o si fa in un modo, o si fa in quello opposto, scontentando automaticamente la fetta (anche grande) degli elettori che la pensa diversamente. Le democrazie, quindi - anche se in realtà si dovrebbe parlare solo dei politici - tendono a non prendere posizione su questi temi, ammettendo entrambe le possibilità.
Tutti i temi più scottanti rientrano in questo calderone: aborto, eutanasia, divorzio, matrimoni e adozioni gay, liberalizzazione di droghe leggere, eccetera. In Italia alcuni di questi temi non sono ancora liberalizzati, ma è palese che i fronti progressisti spingano vigorosamente in quella direzione. Molti pensatori liberal sostengono che non abortirebbero mai, non si drogherebbero mai, non si separerebbero mai, perché lo ritengono sbagliato; ma che tuttavia non è giusto imporre ad altri le proprie convinzioni. Si tratta infatti di "questioni di coscienza". "Coscienza" in questo caso ha un significato estremamente profondo e negativo: ciascuno utilizza la propria coscienza perché non è possibile stabilire la "Verità" ultima della situazione in essere.
Il caso più lampante è quello dell'aborto. L'unica ragione per cui un aborto può essere consentito da uno Stato, è perché non si sa se chiamare "vita", "bambino", o meno, quell'ammasso informe di cellule che pian piano cresce nel ventre di una donna. Se una Verità stabilisse che quello è effettivamente un bambino, lo Stato - che ancora sembra volersi impegnare a difendere la vita umana - non potrebbe in alcun caso ammettere il diritto di aborto.
Curiosamente nella valutazione di questo tipo di scelte viene sottratta la variabile "tempo". Ci si pone cioè la questione nell'oggi, nel momento, non considerando gli effetti futuri della scelta presente. Cosa succede infatti se non abortisci entro 9 mesi, forse che nasce un bambino? Cosa succede a un drogato se lo lasci libero di drogarsi a go-go per anni? Come sarà psicologicamente - e quindi come si comporterà nel corso della sua vita - il bambino allevato da genitori omosessuali? Forse alla Verità si potrebbe anche giungere più facilmente considerando questa variabile.
L'argomentazione molto amata dai liberal-radicali (liberalizzare l'aborto, perché altrimenti serpeggia quello clandestino; o liberalizzare le droghe per sconfiggerne il traffico e "monitorare" chi ne fa uso) è fallita alla prova dei fatti. Dove questi tipi di libertà sono stati concessi, i cittadini non ne hanno saputo fare buono uso. E con "buono" intendo che non hanno saputo ascoltare quella voce bassa della coscienza che ti dice che abortire non è 100% giusto, drogarti non è 100% giusto, avere famiglie gay che adottano bambini non è 100% giusto. I cittadini creano e influenzano le leggi, ma ne vengono a loro volta influenzati. Nelle democrazie in cui questi diritti sono diffusi e consolidati, la scelta "cattiva" risulta non più la depenalizzazione di un'eccezione, di un fallimento del sistema, bensì una prassi normale con pari valore sul piano etico e morale del suo esatto contrario. Con impatti devastanti sulla cultura di un popolo.
Per questo non è accettabile che i politici e lo Stato si rifiutino di dare un chiaro indirizzo morale alla loro attività, ma è anzi fondamentale che certe libertà siano regolate o limitate in modo più severo, alla luce di principi fondativi forti e condivisi dalla comunità. Altrimenti che senso ha la democrazia e l'elezione dei rappresentanti?
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