domenica 26 aprile 2009

Risurrezione


Dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi
Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana.
Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti.
Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo. Non lasciatevi ingannare, ritornate in voi, come conviene, e non peccate! Alcuni infatti dimostrano di non conoscere Dio; ve lo dico a vostra vergogna. Ma qualcuno dirà: “Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?”. Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo. Non ogni carne è la medesima carne; altra è la carne di uomini e altra quella di animali; altra quella di uccelli e altra quella di pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, e altro quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle: ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore. Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale.

sabato 25 aprile 2009

Note primaverili

Quale forza, quale bellezza nella fragilità dell’uomo... Siamo così piccoli, infinitesimali, e nonostante tutto cerchiamo e crediamo di poter controllare la nostra vita. Viviamo, sopravviviamo, ogni giorno sopportiamo mille difficoltà, ma andiamo avanti perché non possiamo fare diversamente. Come non provare gioia e tristezza per la condizione dell’uomo? Un uomo che è così incline a dimenticare. Dimentica le sue fatiche passate, le sue sofferenze, le sue battaglie, e spensieratamente commette ogni volta gli stessi errori. Un uomo che non si chiede da dove viene e dove va, non trova il suo senso nel giardino del mondo, perde il contatto con le generazioni del passato, vive la sua vita giorno per giorno sentendosi fortunato se ha qualcosa per tirare avanti.
In un mondo che dà occasioni di grande allegria, che quando c’è sembra non finire mai, e grandi dolori, che sul momento appaioni insuperabili; ma tutto alimenta quel grande calderone che è il passato, che non esiste più, mentre rimane sempre qualcosa da fare, da vivere, di cui preoccuparsi.
Come non vedere che non c’è l’io e l’altro, che il nostro corpo non finisce all’estremità della nostra mano, ma è un continuo nel Tutto, in questo mondo in cui siamo immersi e da cui non possiamo uscire. Un mondo in cui infatti non c’è dentro né fuori, perché c’è solo il Tutto, e noi di questo siamo parte, tutto nel Tutto. Non vedere che nel volo di una rondine è racchiuso tutto il mistero della vita, i segni del tempo e la storia della terra, alla luce di un sole che nasce e muore ogni giorno.

giovedì 23 aprile 2009

Democrazia italiana

E' del secolo scorso il concetto che la democrazia sia il capolinea come sistema di organizzazione politica per eccellenza, e in quanto tale vada promosso ed esportato nel mondo. Per quanto si possa anche essere d'accordo con le premesse, esportare sistemi organizzativi di questo tipo è pressoché impossibile.
E' la storia di un popolo a determinarne naturalmente la forma organizzativa, attraverso un processo di piccoli progressivi miglioramenti, di spinte positive e negative, che promuovono e sfidano il raggiungimento di un equilibrio sempre più stabile. Tale equilibrio rifletterà anche lo spirito e la natura dei suoi cittadini, i cui cambiamenti richiedono lunghe generazioni per manifestarsi in modo sostanziale.
La democrazia non è un sistema organizzativo naturale. Non è la prima soluzione che nasca spontanea all'interno di un gruppo, anzi, ha richiesto millenni per manifestarsi. Per quanto si possano creare in varie forme, specialmente dall'esterno, le condizioni strutturali perché si costituisca una democrazia - tramite la costruzione ad hoc di un apparato normativo, di leggi democratiche e di un potere esecutivo che gestisca il nuovo ordine sociale - non per questo i cittadini saranno pronti per la vita democratica.
L'Italia non è nata come una democrazia, e non si è guadagnata la democrazia. La democrazia è stata costruita dagli alleati sulle rovine di una dittatura, una dittatura che gli italiani da soli non sono riusciti a cambiare - ma che anzi sarebbe verosimilmente continuata, qualora non fosse implosa nei disordini mondiali dell'epoca.
Condizione indispensabile per il funzionamento della democrazia è prima di tutto il desiderio dei cittadini di farne parte, di costituirsi insieme in una comunità equa e organizzata. Se il sentimento civico non è profondamente scolpito nei cuori degli individui, ma ognuno è per sè, non potrà mai realizzarsi - se non molto lentamente e con una buona dose di fortuna - una società realmente democratica. Per quanto in Italia le strutture democratiche siano ormai consolidate, tra lo spirito delle leggi e la volontà/il comportamento dei cittadini ci sta ancora un mare. Ne abbiamo di strada da fare prima di raggiungere il traguardo.

martedì 21 aprile 2009

Un tema delicato

Un po' mi sorprende quanto sia inflazionata la parola razzismo, come sia diventata versatile. Si e' trasformata in un insulto - Razzista! - usato in politica per decretare una condanna senza appello dell'avversario. Ha assunto così tante sfaccettature, angolazioni, che non può nemmeno essere soggetta a discussione e sfugge ad ogni tentativo di discorso o dialogo. Quando lo spettro del razzismo viene evocato, non esiste più ragione o possibilità di un confronto civile e politico: solo un senso di vergogna e un desiderio di penitenza che dovrebbe pervadere chi è oggetto dell'accusa.
Nel paradosso del progressismo laico, del politicamente corretto come religione, dello snobismo intellettuale lontano dalla concretezza delle cose, l'accusa di razzismo è diventata l'arma prediletta per screditare la parte avversa in qualunque situazione. E' sinonimo di intollerante, ignorante, stupido, criminale, violento, nemico dell'uguaglianza. Ha assunto così tanti significati da aver perso quasi senso, certamente il senso originario della parola.
Il razzismo nasce come "teoria della differenza delle razze" o razzismo biologico, in base al quale il sangue/DNA costituisce naturalmente una discriminazione tra gli individui (intesa come separazione, diversità). Cosa che potrà forse essere anche vera, visto che nessuno ha il medesimo patrimonio cromosomico di un altro individuo, ma che difficilmente può essere intesa come "superiorità genetica" di un popolo rispetto ad un altro, così come è stata interpretata nella storia, con le sue barbare conseguenze; e, con questo scandalo, il significato della parola razzismo si è trasformato nel generico senso dispregiativo di discriminazione.
Si usa la parola razzismo per identificare discriminazioni di tipo religioso, culturale, sessuale; quasi mai per discriminazioni razziali. E' così sciocca e stupida l'idea di discriminazione razziale che non ci crede nessuno. Ma il peso morale che la parola si trascina dietro ne fa un'arma eccezionale di attacco politico, a prescindere che abbia veramente senso usarla o meno.
Non bisogna essere parte di un elite intellettuale per condannare quello che costoro intendono come razzismo. Qualunque idea che teorizzi, giustifichi o promuova la violenza anche su di un solo individuo, è certamente malefica e va condannata. Non per questo bisogna rifiutare di toccare i temi più caldi del mondo in cui viviamo, un mondo che mette in confronto e spesso in conflitto diversi paesi, culture e religioni. Un mondo in cui gli uomini sono sostanzialmente diversi. Sono diversi fin dalla nascita, per ceto, salute fisica, statura, lingua, colore, religione, cultura. Crescendo diventano ancora più diversi, affinando idee e personalità anche diametralmente opposte. La diversità degli uomini è una fortuna, una salvezza, un'occasione. Dire che gli uomini sono tutti uguali, oltre ad essere completamente falso, sminuisce soltanto l'unicità e il valore del singolo individuo.
La diversità fa paura, ma paradossalmente fa paura a quelli che predicano l'uguaglianza a tutti i costi. Per questo chiunque si azzardi a entrare nel campo della diversità tra gli uomini, si addentra nel campo minato del loro razzismo.

sabato 18 aprile 2009

Parole, parole

Alcuni recenti scandali televisivi hanno rilanciato il dibattito sulla libertà di parola, che sembra essere poco presente in Italia.
Quella di parola torna ad essere una libertà scomoda, per varie ragioni. Un’altra di quelle libertà che, se ci fosse un arbitro imparziale in possesso della Verità sui fatti, non sarebbe necessario concedere; ma poiché a nessuno in democrazia è consentito dire ciò che è giusto o sbagliato, ma solo ciò che pensa, si ricade in quelle situazioni di relativismo già descritte in cui, nella sostanza, giusto e sbagliato trovano ad avere la stessa legittimità. E’ uno dei fallimenti morali della democrazia, anche se viene accettato per il bene superiore della collettività, cioè la salvaguardia della democrazia stessa. Se il custode della Verità ci fosse, infatti, sarebbe un tiranno; e il rimedio alla tirannia è l’amaro calice di bene e male rimescolati, tollerati, superati, nella possibilità di dipingere il re nudo.
Si dice che una democrazia che consente la massima libertà di parola è una democrazia forte, una democrazia matura, che ha gli strumenti per gestire il “caos” delle libertà. Sicuramente vero; fermo restando che alle istituzioni dovrebbe spettare un ruolo di arbitro, almeno morale: infatti chi può dire ciò che è bene o male per la comunità se non i suoi rappresentanti? E il fine dei rappresentanti, il fine della democrazia, quale è, se non gestire l’organizzazione della vita in un modo sempre migliore, che permetta la crescita e il rafforzamento del gruppo? Se pertanto uno dei pregi della democrazia è avere elementi centrifughi che vadano “contro” il gruppo stesso, è tuttavia importante che il gruppo si tuteli affinché tali spinte non diventino disgreganti, e vanifichino lo stesso scopo della democrazia.
La libertà di parola, pertanto, è legittima in ogni ambito della vita personale; ma va necessariamente limitata nella sfera pubblica - in particolare nei media, quando a parlare non sono i rappresentanti diretti del popolo. Un conto è fare due chiacchiere al bar; un altro è dire le stesse cose su una rete televisiva nazionale, con un potere di diffusione enorme, non essendo stati prima legittimati ad essere “voce del popolo” (cioè rappresentanti e organo della democrazia).
Se infatti un rappresentante del popolo dovrebbe godere il massimo diritto di libertà di parola nei confronti del pubblico, e avere la possibilità di raggiungere il massimo numero di individui, non così dovrebbe essere per un qualsiasi cittadino che parla solamente per sé, ma le cui opinioni – che vanno ad assumere lo stesso peso, o anche superiore, di quelle di un rappresentante del popolo – possono arrecare un grave danno alla coesione e all’armonia sociale, un bene che di questi tempi è senza prezzo.

martedì 14 aprile 2009

Eroi - J.R.R. Tolkien


Scrittore, poeta, filologo. Combattente volontario nell'esercito britannico durante la prima guerra mondiale, professore di lingua e letteratura inglese a Oxford, proclamato cavaliere - col rango di Comandante - del Supremo Ordine dell'Impero Britannico dalla regina Elisabetta II. Ma soprattutto un grande cattolico, un uomo semplice, marito e padre di famiglia. Nato a Bloemfontein in Sud Africa nel 1892, visse a Oxford per la maggior parte della sua vita e morì a Bournemouth nel 1973.
I dati salienti della sua vita si possono facilmente trovare in rete, ma difficilmente possono dare un'idea completa di questo eroe della Tradizione. Tolkien ha visto, compreso e assimilato lo spirito della sua terra, restituendolo in un'opera nuova, in modo che si aprisse alle menti di tutti. Uno spirito antico e nuovo, semplice e potente, tanto puro da essere inebriante; uno spirito che lui ha raccolto e condensato alla luce della sua fede, distillandolo come un mosaico di stupenda bellezza. Le sue opere hanno il profumo dell'erba e della terra, di fiori e piante, di amore per le cose che crescono. Di allegria e semplicità, di aspirazione per ciò che è bello, di grandi sacrifici da parte di piccola gente. Il suo capolavoro ha il respiro del tempo che passa, delle epoche che si susseguono; mentre sempre più si allenta il legame tra l'uomo e il suo Creatore, e la Verità diventa pian piano un tesoro di segreti di cui solo pochi serbano ancora il ricordo.
Troppo grande, troppo ricco, troppo attuale - sempre vero, nell'eternità del mito - non sembra esista un altro scrittore che abbia potuto ripetere un'opera di "sub-creazione", come Tolkien amava definire le opere degli uomini, così verosimile a quella della creazione originaria. Ne dovremo parlare ancora.

domenica 12 aprile 2009

Proiezioni

Manzoni parlava del vizio dell'uomo di "riferir tutto a se stesso", di usare il proprio ego come riferimento per misurare il mondo, per relazionarsi con gli altri, per giudicare. Di collocare se stessi al centro della situazione, come se tutto ciò che accade fosse in dipendenza da noi e parlasse di noi.
Ed è certamente umano e inevitabile, se non necessario, che riferiamo tutto a noi stessi, poiché le scelte che facciamo sono per lo più frutto della nostra personale esperienza. Possiamo imparare la pazienza, la saggezza, il discernimento - e sospendere il giudizio, in modo più o meno critico - resta il fatto che lo spettro di posizioni che riusciamo ad assumere, gli angoli e le diverse prospettive da cui riusciamo a vedere la realtà, dipendono dagli strumenti che ci siamo costruiti nel tempo - il nostro bagaglio.
Un altro modo con cui si può esprimere questo concetto è "chiave di lettura", di interpretazione della realtà.
Tutti hanno la propria chiave di lettura, unica e personale, anche se si può notare come esistano dei gruppi di interpretazione piuttosto omogenei. La chiave di lettura serve per farci arrivare alla comprensione di ciò che non è possibile conoscere con i sensi, ciò che non è dimostrabile scientificamente. Vorrebbe cogliere in particolare l'"anima" degli uomini, i loro pensieri, le loro intenzioni. La chiave di lettura mette insieme i movimenti, le azioni, i comportamenti degli individui, rielabora tutte queste informazioni, e da esse ci consente di dedurre quale sia il motore che spinge una particolare persona a fare quello che la vediamo fare. Un motore che non vediamo, una spinta che non conosciamo - possiamo solo cercare di avvicinarci e di capire. Spesso la chiave di lettura funziona proprio così, mettendo noi stessi dei panni degli altri; ma non nella prospettiva di "comprendere" qualcosa di esterno, appunto l'"altro", ma per riuscire a descrivere il comportamento degli altri basandoci su di noi: ciò che noi faremmo, penseremmo, intenderemmo, se ci stessimo comportando alla stessa maniera. Stiamo cioè semplicemente proiettando noi stessi sugli altri e sulla loro situazione.
Ipotizziamo di passeggiare per strada, e di vedere un povero che si toglie il cappello al passare di un potente. Per quale ragione può averlo fatto?
Può averlo fatto per una manifestanzione di sottomissione, di inferiorità, e perché le convenzioni sociali del suo tempo impongono - o costringono - a mostrare tale condizione. L'avrà fatto pertanto controvoglia, ipocritamente, perché costretto dalla sua umile situazione. Oppure l'ha fatto perché ha desiderio di ricevere favori, assistenza, protezione. L'ha fatto per motivi utilitaristici, ed il rispetto che manifesta è soltanto una forma di corrispettivo per qualcosa che si aspetta di ricevere in futuro, o che ha ricevuto in passato. Oppure l'ha fatto per pura cortesia, educazione, perché così fa al passare di chiunque altro di sua conoscenza; e si sente meglio a fare un gesto di cortesia disinteressato piuttosto che uno ipocrita.
Una di queste possibilità è vera, e non potremo mai sapere quale; possiamo solo "sceglierla". Quale sceglieremo pertanto? La risposta saà la nostra proiezione, rappresenta la nostra chiave di lettura e ci aiuta a capire meglio chi siamo noi stessi. Resta il fatto che, mentre è assai più facile accettare le prime soluzioni, quelle negative, risulta più difficile oggi credere in quella positiva; la grande categoria marxista-scientifica ha devastato l'anima dell'uomo come possibilità di avere buone intenzioni, riconducendo tutto ad un gioco causa-effetto di necessità materiale, di conflitto infinito per le risorse, di armonia sociale basata sul livellamento degli uomini allo stesso massimo (o minimo) comune denominatore.
"La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!" Come pure è stato detto, "non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo! Ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore, questo rende immondo l’uomo".